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IL CONCETTO DI DIPENDENZA

La dipendenza è un fenomeno estremamente complesso, che implica non solo aspetti neurobiologici, ma anche, cognitivi, sociali e culturali, chiamando in causa numerosi aspetti della sfera individuale, tanto che risulta tuttora impossibile darne una definizione precisa e condivisa da tutta la comunità scientifica.
La dipendenza, infatti, investe l’individuo sia a livello comportamentale (si manifesta per esempio nella ricerca di una sostanza o nella reiterazione di un determinato comportamento) sia a livello psicologico, in quanto il soggetto appare totalmente assorbito dall’oggetto (della propria dipendenza), tanto da non riuscirne a farne a meno e arrivare a trascurare quasi per intero qualsiasi altro livello della propria esistenza. Le conseguenze negative, che come naturale iter seguono questa situazione, si ripercuotono sull’intero funzionamento della vita dell’individuo, provocando una condizione di sofferenza generale che spesso si estende anche al suo contesto di appartenenza.
La dipendenza appare, quindi, come “la risultante dall’incrocio tra il potere che un oggetto ha in potenza, e il potere che la persona è disposta ad attribuirgli” ossia “è la convinzione individuale, in seguito ad un esperienza soggettivamente interpretata, di aver trovato in quel posto e solo in quel posto la risposta fondamentale ai propri bisogni e desideri essenziali, che non è possibile soddisfare altrove”. Seguendo quest’ottica, dunque, la dipendenza non ha una o più cause con struttura mono-causale lineare, ma si costituisce in una circolarità di bisogni, sistemi e significati che trovano il proprio centro e ragion d’esistere proprio nella relazione tra: Soggetto-Oggetto della dipendenza-Ambiente-Caso.

UN PÒ DI CHIAREZZA SULLE PAROLE: DEPENDENCE VS ADDICTION

Spesso, durante le traduzioni di un testo da una lingua a un altra, si perdono la sensibilità e la finezza dei termini ricercate dall’autore: questo conduce inevitabilmente alla creazione di paradossi, zone d’ombra o bizzarri fraintendimenti. La lingua inglese, per esempio, opera un’importante distinzione tra due termini che vengono tradotti in italiano con il medesimo vocabolo pur avendo significati molto diversi: è il caso di dependence e addiction.
Per dependence si vuole, infatti, indicare la dipendenza fisica e chimica, quella situazione in cui l’organismo, necessitando di una determinata sostanza per funzionare, la richiede e, se non l’ottiene, va incontro a una serie di alterazioni psico-socio-neuro-fisiologiche.
Con addiction, invece, s’intende definire quella condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla ricerca dell’oggetto, senza il quale l’esistenza persiste, ma diventa priva di significato. Naturalmente, le due diverse accezioni di dipendenza non compaiono strettamente e necessariamente interrelate: è possibile sviluppare sia addiction senza dependence, cioè un bisogno imprescindibile di mettere in atto dei comportamenti significativi in assenza di una dipendenza fisica vera e propria (un esempio sono le nuove forme di dipendenza senza sostanze ma rivolte nei confronti di attività), sia una dipendenza fisica senza addiction, vale a dire senza sviluppare una forma patologica che conduce mano a mano alla completa autodistruzione e all’isolamento dei soggetti (è il caso, per esempio, della dipendenza dalla nicotina, in cui l’organismo richiede la sostanza e sviluppa anche una dipendenza psicologica, ma difficilmente degenera in azioni illegali o comportamenti gravemente antisociali).

NEW ADDICTIONS”: LE NUOVE DIPENDENZE “SENZA SOSTANZA”

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1992) ha definito il concetto di dipendenza patologica come “quella condizione psichica e talvolta anche fisica, derivata dall’interazione fra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comportano sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico allo scopo di provare i suoi effetti psicologici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione”.
Tale definizione viene adottata anche dai maggiori testi di riferimento per la classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali, quali il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR, APA, 2000) e il Manuale di Classificazione delle Sindromi dei disturbi Psichici e Comportamentali (ICD-X, OMS, 1994), dove il concetto di dipendenza nel senso più stretto del termine si riferisce unicamente all’uso e abuso di sostanze psicoattive.
Tuttavia, oggi, ciò che viene definita dipendenza abbraccia una visione ben più ampia, includendo al suo interno anche sintomatologie provocate dalla messa in atto incontrollata di attività socialmente accettate. Proprio la legittimità e l’accettazione sociale di tali pratiche rende labile il confine tra quelle attività praticate a scopo ricreazionale e ciò che, invece, può considerarsi una vera e propria dipendenza.
Le nuove dipendenze, o “new addictions”, comprendono quindi tutte quelle forme di dipendenza in cui non è implicato l’intervento di alcuna sostanza chimica. L’oggetto della dipendenza, infatti, è in questo caso un comportamento o un’attività lecita: per questo sono conosciute anche come dipendenze comportamentali. Per la maggioranza delle persone, queste attività rappresentano parte integrante del normale svolgimento della vita quotidiana; tuttavia, per alcuni possono assumere caratteristiche patologiche, fino a provocare gravissime conseguenze.
La persona, infatti, manifesta un’incontrollata necessità di dover compiere un comportamento specifico per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno, che talvolta assume l’accezione di una necessità quasi fisiologica come per il tossicodipendente assumere la sostanza.
Nonostante queste nuove dipendenze non abbiano ancora trovato posto all’interno del DSM, c’è unanime accordo a considerarne 6 (al loro interno ulteriormente specificate):

  • dipendenza da internet (internet addiction);
  • dipendenza dal gioco d’azzardo (gambling);
  • dipendenza affettiva (love addiction);
  • dipendenza sessuale (sex addiction);
  • shopping compulsivo;
  • dipendenza dal lavoro/dall’attività (work addiction).

La classificazione mette in risalto la loro natura socio-culturale, oltre a sottolineare come le differenze che intercorrono tra dipendenze da sostanze e da comportamenti, esistano non tanto per le sintomatologie ad esse associate, quanto per le caratteristiche degli oggetti di dipendenza.
Il punto d’arrivo naturale di questa prospettiva non è tanto il riconoscimento del fatto che certe condotte compulsive costituiscano vere e proprie dipendenze considerate allo stesso modo delle tossicodipendenze (e quindi che esistano tante dipendenze), bensì l’idea dell’esistenza di un’unica sindrome di dipendenza che può avere espressioni anche molto diverse.

 

COS’È IL DISTURBO DA DIPENDENZA DA INTERNET (INTERNET ADDICTION DISORDER, IAD)

Se da una parte è assodato che l’uso eccessivo di internet può portare a difficoltà in varie aree del funzionamento umano, dall’altra è giusto sottolineare come nonostante la presenza di un certo accordo sulla sintomatologia e la comparsa di oltre venticinque definizione ufficiali supportate da una miriade di studi a riguardo, oggi quella definita, tra gli altri modi, IAD o PIU non fa parte di alcun sistema diagnostico (per cui i soggetti affetti da questo problema possono essere inseriti soltanto all’interno della categoria del Disturbo del Controllo degli Impulsi Non Altrimenti Specificato).
Kimberly Young, docente dell’università di Pittsburgh, direttrice nel medesimo centro per l’ Online Addiction Centre, nonché attuale massima esperta mondiale del settore, propone una definizione dei disturbi legati all’utilizzo di internet, (Problematic Internet Use (PIU) caratterizzata da almeno 5 dei seguenti sintomi:

  1. eccessiva preoccupazione riguardo al mondo virtuale (pensare o pianificare il collegamento successivo, sentire la necessità di esser sempre connessi);
  2. bisogno di spendere sempre maggiori quantità di tempo on-line per ottenere la medesima soddisfazione;
  3. ripetuti, infruttuosi tentativi di ridurne l’uso e sensazione che il tempo passi molto più velocemente quando si è connessi;
  4. menzogne riguardo al tempo passato on-line a famigliari, amici o professionisti per nascondere agli altri l’entità del proprio coinvolgimento in Rete;
  5. modificazione dell’umore (caratterizzato da vissuti di irrequietudine, nervosismo, depressione, irritabilità, sfiducia in se e nel mondo) e conseguente chiusura in sé stessi;
  6. problemi nella gestione del tempo: i soggetti rimangono connessi più a lungo di quanto intendessero originariamente;
  7. perdita delle relazioni famigliari o amicali importanti, o dismessa frequentazione della scuola o del posto di lavoro;
  8. utilizzo del web come fuga dai problemi o per alleviare umore disforico caratterizzato da sentimenti di impotenza, colpa, ansia e depressione;
  9. problematiche fisiche, oltre ai sopracitati sintomi psicologici, possono comprendere:disturbi del sonno, eccessiva stanchezza, indebolimento del sistema immunitario, irregolarità dei pasti, scarsa cura del corpo e carenza d’allenamento, mal di schiena, sindrome del tunnel carpale, stanchezza agli occhi e mal di testa.

Quest’insieme di sintomi, naturalmente, non compare a ciel sereno, ma fa gradualmente la sua comparsa in quelle che possiamo definire come due distinte fasi:

  • la prima (tossico-filia) è definibile come la fase di osservazione e ricerca in cui il soggetto inizia a godere dell’infinita offerta proposta dalla Rete; questa primo periodo appare caratterizzato da controllo, ripetuto più volte nel corso della giornata, della propria posta elettronica, appropriazione del gergo, partecipazione massiva a chat o gruppi di discussione, ricerca e scarico di programmi e strumenti di comunicazione sempre più efficaci;
  • la seconda (tossico-mania) è la fase in cui i collegamenti sono così prolungati da segnalare gravi compromissioni socio-relazionali e lavorativo – scolastiche; in generale, il periodo appare caratterizzato da crescente senso di malessere, di agitazione, bassa attivazione, fantasie ricorrenti su internet quando si è scollegati, e appare soprattutto in persone affette da problematiche psicologiche pregresse.

 

SOTTOTIPI DI DIPENDENZA DA INTERNET

Internet è un mezzo multidisciplinare, navigare in rete significa non solo attraversare mari tempestosi (come fin qui proposto), ma anche potersi rifocillare in numerosi porti che incontriamo nel nostro cammino; poiché ogni sito che intreccia la nostra strada rappresenta un mercato gratuito di informazioni e strumenti che possono esserci utili per il proseguo del nostro viaggio. Questo significa che la “dipendenza da internet” difficilmente si presenterà compatta e omogenea, ma risentirà inevitabilmente delle nostre passioni, sentimenti, cognizioni, abitudini, necessità (ossia della motivazione che ci lega al virtuale) che troveranno risposta proprio in specifiche applicazioni esistenti in internet e che andranno a caratterizzare i 5 diversi sottotipi del disturbo:

  1. DIPENDENZA DALLE RELAZIONI VIRTUALI (CYBER-RELATIONAL ADDICTION)
    E’ caratterizzata dalla tendenza dei soggetti nell’instaurare rapporti d’amicizia o amorosi con persone conosciute on-line attraverso mail, chat, chatroom e newsgroup. Si tratta di una forma di relazione in cui gioca un ruolo fondamentale l’anonimato, il quale in primis permette ai soggetti di attribuirsi specifiche caratteristiche fisiche e caratteriali anche molto lontane da quelle possedute (ci si presenta diversi da come si è evitando di sperimentarsi come persone nel mondo reale), e secondariamente permette alle relazioni virtuali di diventare in apparenza più vere/intime di quelle reali grazie ad una maggiore immediatezza (la comunicazione in internet è veloce, fluida e caratterizzata da domanda/risposta). Il soggetto per comodità/voglia/evitamento potrà di conseguenza essere portato a frequentare sempre maggiormente queste amicizie e ad isolarsi progressivamente in un mondo popolato da persone solo potenzialmente conosciute.
    La dipendenza dalle relazioni virtuali comprende al suo interno anche quella conosciuta come “Social Network Addiction”, (dipendenza da social network) in cui il soggetto necessita di perenne connessione, aggiornamento e controllo del proprio profilo web presentato nei social network. Questo rifugiarsi nel mondo virtuale sembra dovuto al forte senso di sicurezza e di socialità che tali attività sono in grado di offrire (apparentemente) all’utente, in una società sempre meno connotata dai contatti sociali e improntata all’apparire a scapito dell’essere.
  2. GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO ON-LINE (NET COMPULSION)
    Il gioco d’azzardo patologico è strettamente inparentato con l’assai, fino a una decina d’anni fa, più conosciuto e chiacchierato gioco d’azzardo. La diffusione di internet su larga scala, ha solo dato la possibilità al gambler (giocatore d’azzardo) di uscire da illegali taverne fumose… per chiudersi definitivamente all’inteno del proprio pc!
    La dipendenza dal gioco in rete vanta una vasta gamma di siti (casinò virtuali, videopoker, ricevitorie on-line, siti delle case d’asta o di scommesse), dove, comodamente seduti sul proprio divano, si può “tentare la fortuna” o più facilmente andare in contro ad una spirale di perdite, depressioni e problematiche nelle relazioni famigliari, oltre che ai ben noti danni economici. Il comun denominatore di queste attività è rappresentato dalla competizione, dal rischio ed dal raggiungimento di una immediata eccitazione neuropsicologica.
    L’instaurarsi di questa necessità compulsiva di giocare è incentivata e potenziata dalle caratteristiche della Rete Internet quali:
    Accessibilità: internet è facile e disponibile a tutti ventiquattro ore su ventiquattro;
    – Controllo: dà la possibilità di monitorare le proprie vincite in diretta, senza bisogno di un intermediario;
    (entrambi questi punti vedono nell’anonimato un facilitatore immenso in quanto permette ai soggetti di non doversi relazionale con nessuno, evitando quel tabù sociale che spesso può rappresentarne un freno).
    Evasione: dai problemi della vita quotidiana grazie all’alterazione emozionale quindi all’eccitazione che accompagna la vincita di somme di denaro.
  3. SOVRACCARICO COGNITIVO (INFORMATION OVERLOAD)
    La ricchezza dei dati disponibili sul Web ha creato un nuovo tipo di comportamento compulsivo per quanto riguarda la navigazione e l’utilizzo di internet; il bisogno di reperire quantità sempre maggiori di informazioni sta infatti diventando un problema per molte persone che, guidate dall’eccitazione provata al termine positivo di una ricerca, finiscono con l’ iniziarne un altra ad essa connessa, andando inevitabilmente a ridurre il rendimento lavorativo o scolastico. Secondo numerosi ricercatori, Internet alimenta la mentalità americana del “fast food” nei confronti dell’informazione; i siti web e la reperibilità perenne di internet (con i cellulari moderni si ha la possibilità di tenere la Rete sempre in tasca) rappresentano un enorme possibilità per questi soggetti che convinti di aumentare il proprio sapere, e con esso il proprio stato sociale, continuano ad immagazzinare futili informazioni a scapito di una vita reale.
  4. DIPENDENZA PER I VIDEOGIOCHI (COMPUTER/GAME ADDICTION)
    Negli anni ‘80 giochi quali il “Solitario” e il “Campo Minato” furono programmati nei calcolatori e da subito si osservò un calo del rendimento lavorativo nelle strutture che presentavano queste applicazioni. Dagli anni Ottanta la tecnologia ha fatto passi in avanti inimmaginabili e quello che inizialmente era considerato passatempo, ha man mano conquistato una parte del mercato che da nicchia si è trasformata in breve tempo in una fetta importante. Passando per le varie console che hanno animato in grafica bidimensionale, noi cresciuti negli anni Novanta con giochi, di sport, di strategia o avventura, attualmente si registra la tendenza al coinvolgimento in giochi virtuali, come ad esempio i MUD (Multi User Dungeon) o MMORPG (Massively Multiplayer On-line Role-Plying Game) eseguiti in tre dimensioni e fruibili attraverso la Rete, da più utenti contemporaneamente, in cui il soggetto entra in gioco costruendosi un’identità fittizia (Avatar) in un mondo fantasioso.
    Nel web, possono essere formate quindi delle allenze tra diversi giocatori dislocati nella propria stanza in diverse parti del mondo, che coordinati nell’orario iniziano maratone anche di dieci o più ore consecutive al fine di “finire il livello” e aumentare la potenza del proprio personaggio virtuale. Una recente ricerca tedesca pubblicata dal quinto Forum europeo sulla neuroscienza di Vienna ha dimostrato come usare giochi per il computer su internet crei una dipendenza per certi casi simile a quella da cannabis o da alcool. L’uso massivo dei videogiochi può essere partecipe di un’altra patologia specifica: la “Trance Dissociativa da Videoterminale”, una forma di dissociazione collegata ad una dipendenza patologica dal computer e dalle sue molteplici applicazioni che è caratterizzata da alterazioni dello stato di coscienza, depersonalizzazione e perdita del senso dell’ identità personale. Sono proprio alcune caratteristiche fondamentali di Internet già citate, quali l’anonimato e l’assenza di vincoli spazio-temporali, che offrono la possibilità di vivere un’esperienza particolare, simile al sogno. Da ciò si evince che tali esperienze vadano assumendo un ruolo dilagante nella vita dell’individuo che viene catturato dal gioco o dall’attività informatica a cui si dedica, rimanendone «posseduto» fino al punto di perdere il controllo di sé e della situazione. Per chiudere, i dati dei fruitori di videogames degli ultimi anni almeno in USA parlano chiaro dato che i dati di “American Life Project” e “Pew Internet” avvertono che per il 53% degli adulti e per il 93% degli adolescenti il videogames è considerato la forma preferita per passare il tempo.
  5. DIPENDENZA DA SESSO ON-LINE ( CYBER-SEXUAL ADDICTION)
    Come era logico attendesi, anche la pornografia e il senso del pudore si sono evoluti di pari passo alla tecnologia e ai mezzi di comunicazione e oggi la parola “sex” è la seconda più ricercata nel più noto motore di ricerca al mondo. La dipendenza da sesso virtuale è caratterizzata da un uso compulsivo-passivo di siti per adulti (pornodipendenza) e -attivo di chat (dipendenza da cybersesso) che hanno come comun denominatore l’atto masturbatorio del soggetto di fronte al pc. Il soggetto, in entrambe le sue forme, durante l’uso/abuso di questo materiale pornografico è dissociato, sperimenta cioè una perdita di controllo e l’atto della masturbazione può durare ore su ore, terminando più per sfinimento che per il piacere legato ad un’eiaculazione. Le attività sessuali generalmente consistono nel guardare o scaricare materiale pornografico, leggere o scrivere storie, scambiarsi annunci con altri soggetti, visitare chat erotiche, flirtare, parlare esplicitamente di sesso, cercare partner sessuali per la vita reale o compagni di masturbazione in quella virtuale, il tutto facilitato dalla visione del proprio/i partner attraverso webcam (se il vantaggio tratto dagli uomini è ovviare al problema dell’ansia da prestazione evitando problematiche associate come l’eiaculazione precoce o l’impotenza, il gentil sesso ne sarebbe attratto, poiché permetterebbe loro di liberarsi dal peso dell’apparenza fisica sentendosi più libere e disinibite nello sperimentare il proprio piacere). Dato che questa overdosi di immagini e video dissolve il bisogno di immaginare e con esso la fatica psichica e il postumo senso d’appagamento, la missione del fruitore sarà allora rappresentata dalla ricerca di immagini sempre più eccitanti, saltando compulsivamente da un sito ad un altro, senza sentirsi mai del tutto appagato. Questa porno-ricerca di materiale sempre più trasgressivo, con il tempo, può portare a far perdere interesse per la vita sessuale, e per la vita di coppia in particolare, poiché conduce ad un calo di desiderio causato dalla saturazione delle proprie fantasie .
    Ad alimentare le preoccupazioni c’è la consapevolezza che molti giovani frequentano abitualmente siti pornografici, anche a causa del fatto che l’unico filtro che li separa da ciò, è costituito da una pagina di transizione prima di entrare che domanda di confermare la raggiunta maggiore età. In un sondaggio (Wolak, Mitchell e Finkelhor, 2006) gli autori hanno trovato che il 13% degli utenti di questi siti ha un età compresa tra i 10 e i 15 anni; e soprattutto che il 34% sono stati esposti alla pornografia online senza averla ricercata, cioè attraverso link, errori d’ortografia, pubblicità pop-up o mail spam.
    Il problema pertanto, più che agli adulti teoricamente “vaccinati”, deve riferirsi ai bambini o agli adolescenti, che con ancora non chiara la differenza tra cinematografia e realtà, potrebbero rimanere traumatizzati alla vista di tali immagini, introiettandole e provando a riproporre in prima persona le dinamiche viste; come purtroppo la cronaca quotidianamente testimonia.
    Di altra natura ma strettamente connesso al tema, e quindi da segnalare, è la problematica legata al rischio di cadere nella rete dei “cattivi” entrando in contatto con malintenzionati. La cyberpedofilia è un fenomeno tanto sommerso quanto esistente e in continua espansione, facilitata anche dalla presenza di siti che permettono l’incontro tra pedofili che riuscendo a scambiarsi consigli e materiale diffondono la loro cultura delirante nel web, per agire poi nel mondo di tutti i giorni.

 

CONSIGLI PRATICI QUOTIDIANI

  • Dare il “buon esempio”, soprattutto quando si ha a che fare con bambini/adolescenti resta sempre il primo passo, fondamentale per ogni tipo di educazione. Essere presenti/”insegnare” ai propri figli vuol dire anche mostrare loro, attraverso i piccoli atti quotidiani, come comportarsi in quella potenziale futura interazione/situazione; ciò significa che non ha senso fare una gran ramanzina/punire i propri figli per il tempo trascorso al computer se poi ci si mostra ai loro occhi con in mano I-phone o simili in ogni ritaglio di tempo.
  • Le nuove tecnologie e i social network, non sono di per se “strumenti nocivi” e anzi rappresentano una della più grandi possibilità di accrescimento globale che l’umanità abbia mai incontrato sul suo cammino. Demonizzare uno strumento sarebbe azione stupida e inutile in quanto uno strumento non è di per sé buono o cattivo, è semmai l’utilizzo che si fa di un dato strumento a poter esser valutato positivamente o negativamente. Quando presentiamo le nuove tecnologie ai nostri figli, quindi, proprio come facciamo per un coltello o per un qualsiasi altro utensile, dobbiamo aver la cura e l’accortezza di spiegare loro la maniera adeguata per poterne trarre il massimo giovamento senza rischio alcuno, bisogna cioè spiegare come utilizzarlo e quali rischi o insidie presenta (anche l’uso di un coltello può esser pericoloso e letale ma non per questo a tavola si taglia con il cucchiaio!);
  • Supervisionare la relazione tra il proprio figlio e il computer risulta azione importante in quanto oltre ad informarci del tempo reale che passa connesso alla rete, ci può dare informazioni riguardo alla qualità del tempo speso (è diverso giocare ad un videogioco 5 ore o nella stessa unità di tempo usare il computer per studiare, comunicare con amici o compiere una delle innumerevoli attività, anche formative, svolgibili attraverso il web);
  • la possibilità di bloccare determinati indirizzi web attraverso la presenza di password rappresenta un’accortezza importante per proteggere i propri figli da contenuti adatti ad un pubblico adulto come il controllare la cronologia dei siti visitati;
  • decidere insieme ai figli delle regole base per “la corretta navigazione” (es. quali siti è meglio evitare, quale materiale/fotografie è bene non pubblicare in blog o social network di dominio pubblico, l’importanza di evitare sconosciuti o non accettare l’ “amicizia” in maniera indiscriminata,) e un tempo massimo da spendere a contatto con il computer, magari aumentabile proporzionalmente al livello di sviluppo, rappresenta un’altra arma importante per educare i figli al virtuale;
  • importante può essere, una volta che il ragazzo inizia ad usufruire del mezzo in solitudine farsi fare piccoli resoconti riguardanti le notizie apprese, i siti visitati oltre che l’eventuale incontro con informazioni/immagini shockanti o non pienamente comprese;
  • come per la maggior parte delle attività, il metodo migliore per educare al web è quello di confrontarsi apertamente con i propri figli mantenendo uno stile autorevole ma non autoritario, facendo chiarezza con loro su quali bisogni il web riesce realmente a soddisfare. Questo continuo scambio d’informazioni, questo perenne confronto con il proprio figlio può aiutarci/aiutarlo ad illuminare quelle parti in ombra che potrebbero sfociare in seguito in comportamenti negativi esperiti mediante o senza l’utilizzo del web;
  • per fortuna o purtroppo ormai ogni attività o quasi può essere svolta attraverso internet, avvicinarsi al problema delle nuove tecnologie senza scegliere la giusta lente potrebbe perciò portarci a pensare che il web abbia aumentato la pericolosità e l’insicurezza nostra e dei nostri figli..in realtà si tratta dell’esatto contrario poiché il mondo virtuale in realtà altro non è che un’ immensa cartina tornasole per quanto riguarda le problematiche della vita, e sapere ciò può esserci di grande aiuto nel comprendere in maniera un poco più profonda e reale i bisogni sottostanti ai comportamenti dei nostri figli. Seguendo quest’analisi la frase “perchè mio figlio passa così tanto tempo al computer?” si trasformerebbe in un meno banale “cosa manca a mio figlio che riesce a trovare solo attraverso il computer?”“ho 500 amici in facebook!!” diventerebbe “mi sento sola nella vita reale” e così via cavalcando l’idea che ogni comportamento associato al mondo del web nasconda una mancanza emotiva nel mondo reale. Lavorando nelle scuole medie inferiori posso garantire che questo quotidiano lavoro di scoperta dei significati nascosti dietro ogni comportamento (in questo caso legato al mondo del virtule) permette una conoscenza di se stessi molto più consapevole e di far un po’ più di chiarezza su dinamiche con cui i nostri ragazzi si devono confrontare ogni giorno: dinamiche non solo strettamente adolescenziali come l’omologazione a standard esterni, il bullismo e il cyberbullismo, l’importanza dell’apparire a scapito dell’essere, dell’autostima, della fiducia in sé e negli altri, del valore delle proprie emozioni e dei propri stati interni, la differenza tra pubblico e privato, la possibilità di scelta oltre che parlare de i loro bisogni e delle loro paure;
  • ricordo infine che un controllo seppur attento e costante può risultare comunque incompleto sia perché è caratteristica attribuita alle nuove generazioni quella di esser un po’ più (ahi noi!) sveglie delle precedenti nell’evitare paletti imposti, sia perché noi tutti spesso ci dimentichiamo che con i nuovi smartphone internet si ha perennemente in tasca, novità questa che rende vano ogni nostro controllo “nel computer di casa”.

UN CASO GIAPPONESE: IL FENOMENO DEGLI HIKIKOMORI

Hikikomori ,è un neologismo coniato agli inizi degli anni Ottanta dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, per connotare uno specifico comportamento osservato in giovani per la maggioranza di sesso maschile, i quali si ritiravano nella propria stanza senza più uscirne per lunghi periodi di tempo.
Il decorso tipico osservato prevedeva una iniziale forma di apatia scolastica seguita da una progressiva interruzione di ogni forma di comunicazione con il mondo sociale, per sfociare in fine in una vera e propria auto reclusione priva di contatto fisico con il mondo reale, di durata superiore ai 6 mesi che, nei peggiori dei casi, poteva continuare anche per diversi anni .
Hikikomori deriva dai verbi hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi) e significa letteralmente isolarsi, chiudersi, ritirarsi; si è soliti utilizzare questo termine per riferirsi sia al fenomeno che a colui che lo mette in atto, altrimenti definito hikikomorean. Fu lo stesso Saito a tradurre il termine in inglese con “social withdrawal” ossia “ritiro sociale” cioè una forte, reiterata e volontaria esclusione dal mondo esterno, un isolamento totale dal contesto sociale, un rifiuto per ogni forma di relazione e contatto non solo con amici e coetanei ma anche di famigliari e dalla stessa luce del giorno, segregata all’esterno delle loro finestre sigillate da carta scura e nastro isolante. La vita di questi giovani si spende interamente all’interno delle loro camere che diventano i loro piccoli mondi reali in cui le uniche forme di interazione, avvengono attraverso internet, videogiochi o chat .
Il rapporto con i famigliari spesso si riduce al semplice passaggio di cibo attraverso la porta; naturalmente anche l’utilizzo degli spazi comuni della casa scompare quasi totalmente per rimane presente solo e non sempre, in orari notturni e limitato all’utilizzo del bagno (in altri casi anche i bisogni corporei vengono svolti nelle loro camere).
I sintomi principali sottolineati da Saito sono:

  • ritiro sociale e rifiuto scolastico;
  • antropofobia o fobia sociale: presente circa nel 67 % dei casi. E’ un sintomo che si sviluppa secondariamente al ritiro sociale, con cui spesso ne crea un circolo vizioso: al momento dell’esordio si manifesta una disfunzione sociale che viene poi accresciuta dalla antropofobia per cui il soggetto tende ad isolarsi maggiormente (es. ha paura degli altri studenti, delle persone anziane, di prender il treno, di rispondere al telefono);
  • automisofobia: ossia la paura di sporcarsi è un sintomo della fase iniziale ed è sostituito più avanti da idee persecutive, ossessive o condotte compulsive (es. mantenimento in camera di tutti gIi oggetti con cui si è entrati in contatto fisico diretto, compresa la spazzatura);
  • comportamenti violenti: quali calci e pugni al muro, sbattere la testa o aggressioni ad un membro famigliare (sempre la madre) vengono esperiti dal 20% di questi ragazzi;
  • inversione del ritmo giorno-notte: presente nell’81% dei soggetti di cui il 61% facenti uso di sonniferi. Questi ragazzi dormono durante l’intero arco della giornata svegliandosi di notte per giocare a videogames, o navigare in rete;
  • desiderio di morte (46 % dei casi) e non rispettati progetti di suicidio;
  • regressione infantile es.voce infantile;
  • altri sintomi sono: umore depresso, sentimenti di auto svalutazione e colpa;
  • taijin kiofu: ossia la paura degli altri o l’ansia nel rapportarsi con gli altri, è un termine coniato dagli psicologi giapponesi e non presente in occidente, che indica alcune paure nel rapporto con gli altri come l’ansia relativa agli odori del proprio corpo e del proprio aspetto, paura di arrossire e di sostenere lo sguardo altrui, di cui come vedremo tra poco il DSM presenta una sezione speciale.

I dati ufficiali (dati ottenuti dai centri di supporto no- profit organization sovvenzionati dal Ministero della Salute, Sanità e Lavoro del 2008) sottolineano che in Giappone praticano questa forma di totale rifiuto sociale più di un milione di persone, vale a dire il 2% dei giovani e l’1.1% dell’intera popolazione. Altre fonti, come quelle delle associazioni di genitori HKJ (associazione genitori hikikomori) presentano pero un dato assai più elevato, pari cioè a 1.600.000 (Asashi Shimbum del 22.V.2006 accreditato quotidiano giapponese). L’attendibilità dei dati che descrivono prevalenza ed incidenza appare però limitata da diversi bias; da una parte la reticenza delle famiglie a denunciare i casi a discapito dell’onore famigliare, dall’altro la tendenza a sovrastimare un fenomeno nuovo e ancora poco indagato. Un altro studio, sempre condotto dal Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali del Giappone nel 2003 in tutti i centri di salute mentale del paese ha dimostrato proprio il primo di questi bias, poiché ha riscontrato che vi sono state oltre 14.000 (numero allarmante ma minore) consultazioni per hikikomori in un anno, non includendo nel dato le consultazioni dei genitori
Vista la larga rilevanza sociale, il governo giapponese, pur sottolineando come hikikomori non sia da intendere come una patologia ma come una “cultural bound”, cioè una sindrome culturale, ossia un modo specifico di una determinata cultura per esprimere una condizione di disagio psichico; ha individuato alcuni criteri diagnostici fondamentali:

  • ritiro completo dalla società per più di 6 mesi (il periodo medio di isolamento è di circa 39 mesi ma può variare da un minimo di sei ad un massimo registrato di 15 anni);
  • presenza di rifiuto scolastico, ansia scolastica o lavorativa nonostante il positivo profilo accademico (esclusi i soggetti che continuano a mantenere relazioni sociali);
  • contatto con la “realtà”mediato esclusivamente da internet, chat o videogiochi;
  • al momento di insorgenza non erano state diagnosticate schizofrenia, ritardo mentale o altre malattie psichiatriche rilevanti .

In base alle caratteristiche demografiche, sono stati segnalati i seguenti fattori di rischio:

  • sesso: maschile nel 90% dei casi (nelle donne il periodo di reclusione appare limitato);
  • fratria: prevalenza di primogeniti maschi;
  • età: l’età di esordio si colloca tra i 19 e i 27 anni (nel 23% dei casi già al primo anno di scuole medie inferiori);
  • classe sociale: medio alta con entrambi i genitori laureti;
  • caratteristiche dei genitori: figura paterna quasi sempre assente ma con ruolo lavorativo dirigenziale; madre casalinga iperprotettiva;

Questi profili naturalmente, come ogni cosa a questo mondo che si parli di rocce, piante, animali, percezioni, cognizioni o comportamenti, nasce, cresce, si sviluppa, si modifica e trova senso solo all’interno dell’ambiente e della cultura in cui è inserito; cosi anche hikimori per essere inteso deve essere immerso, come Sashimi in salsa di soia, nella cultura del Sol Levante.
Innanzi tutto la separazione fisica dei componenti di una famiglia all’interno della casa non è prevista nella classica dimora nipponica presente fino agli anni Sessanta, famosa in quanto lo spazio condiviso da tutti e adibito a salone nelle ore diurne, grazie alla magia svolta da separè in carta di riso e da futon, diventa nelle ore notturne camera da letto di tutti i famigliari. In Giappone infatti, l’isolamento di un famigliare in un ambiente separato avveniva solo per malattie fisiche o turbe mentali assai gravi .
Per ministerial decreto, prima della seconda guerra mondiale, le case infatti potevano presentare una zashikiro, letteralmente “stanza prigione”, dove si poteva limitare la pericolosità o il disagio della persone malata/ nasconderlo agli occhi del mondo, fino all’effettiva venuta di Morte.
In secondo luogo il ritiro di hikikomori avviene dopo un periodo più o meno lungo di assenza scolastica, i dati riferiscono infatti che il 90 % dei soggetti l’ha praticata. La società del Sol Levante considera il curriculum scolastico uno dei principali criteri di valutazione delle abilità individuali e dell’importanza sociale. Le scuole superiori e le università statali, denominate shinken jigoku, letteralmente l’ ”inferno degli esami”, in Giappone presentano esami di ammissioni molto ardui che necessitano anche di 14-16 ora di studio quotidiano per periodi di tempo prolungati, uno spropositato numero di soggetti richiedenti, oltre che la non possibilità di risostenerli in caso di esito negativo (se non frequentando scuole di preparazione private assai onerose). Ne consegue così che per i partecipanti, che nonostante la tenera età ricorrono spesso anche all’utilizzo di sostanze dopanti, questa preparazione si possa trasformare in una vera e propria ossessione che se non supportata da risultato positivo finale, può condurre ad estremi quanto certificati tentativi di suicidio o gravi depressioni.
Altrettanto legato all’assenza scolastica è il fenomeno denominato ijime, letteralmente “tormentare” che viene tradotto con il termine “bullismo scolastico”. Questo risulta strettamente interconnesso con la cultura giapponese stessa, poiché chi non è in possesso di sufficienti abilità competitive per stare al passo con i compagni viene spesso ridicolizzato pubblicamente anche per anni e questo non si limita all’età scolare. Il bullismo in oriente è considerato un timbro di infamia perenne che non dà la possibilità al soggetto di uscire da questa dimensione, e unica soluzione che resta all’infamato è quella di dichiarare il proprio fallimento sociale.. dal ritiro da scuola al ritiro dal mondo il passo non è enorme..
Un altro concetto chiave tipicamente connesso alla società giapponese ,che rispecchia tanto la realtà sociale quanto la dimensione psicologica della struttura familiare è quello di amae, letteralmente “dipendere da e presumere la benevolenza dell’altro”. Questa pratica viene incoraggiata in quanto intesa come atteggiamento di orientamento al gruppo, in cui la relazione tra gli individui ha un assoluta priorità rispetto all’individuazione e allo sviluppo del sé, al fine di raggiungere la global wa, ossia l’armonia del tutto.
Sostanzialmente e letteralmente, citando Carla Ricci nel suo “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”, “la parola amae sta ad indicare un particolare atteggiamento riferito al rapporto madre-bambino, una sorta di rapporto simbiotico in cui anche se il bambino accetta un distacco fisico dal corpo della madre, per tutta la sua evoluzione continuerà a sentire la sua vicinanza come una necessità assolutamente indispensabile, come un estremo bisogno di restarle accanto predisponendosi in un atteggiamento di dipendenza”. Le radici dell’ amae si possono rintracciare nella prima importante relazione tra madre e figlio; infatti, seguendo la teoria della Ricci, a differenza della cultura occidentale in cui si ha la tendenza ad abituare il bambino all’indipendenza fin dai suoi primi anni di vita, l’atteggiamento materno giapponese sarà di completa e totale dedizione, e una volta interiorizzato dall’infante, si trasformerà in quel sentimento di obbligo, di sacrificio, di dedizione, che ogni cittadino giapponese sente nei confronti di tutti gli altri.
Questo sentimento di dovere, questa idea di onnipotenza è rivolta, quindi viene esperito, soprattutto dal primogenito sul quale ricadono tutte le responsabilità e le aspettative sociali, in quanto futuro successore e nuovo capofamiglia.
Anche il rapporto con i genitori necessita di esser letto in chiave asiatica; gli hikikomiri come detto e nella maggior parte dei casi, presentano entrambi i genitori laureati e l’appartenenza ad un elevato ceto sociale. La figura paterna, nonostante appaia assente per obblighi lavorativi, fa sentire la sua imponenza al figlio, che si trova obbligato ad introiettare le sue aspettative. La presenza di un padre che ricopre una posizione sociale privilegiata, di un uomo di successo, che combatte per il lavoro ma che non ha amici se non colleghi o ex compagni di studi, un uomo la cui dignità è assicurata solo da una posizione sociale competitiva, scatenano nel giovane figlio timori di non essere all’altezza della pressione sociale a cui è sottoposto, pressioni che sono poi le stesse responsabilità che il giovane hikikomori decide di evitare evitando il mondo, chiudendosi nella propria stanza poiché fuori, il mondo è vissuto come insopportabile.
Continuando un istante il discorso sul ruolo paterno, è opportuno citare la grande crisi che il modello maschile sta attraversando a livello planetario negli ultimi trent’anni, soprattutto in oriente dove i cambi son avvenuti in maniera più repentina. Gli uomini giapponesi devono saper mantenere le emozioni a bada, devono esser retti e produttivi sul lavoro, pensare alla famiglia e al mantenimento del suo onore; fattori che se sommati creano un gran polverone che fa si che questi soggetti possano sviluppare più facilmente caratteristiche caratteriali nello spettro della timidezza (in Giappone timidezza e vergogna si esprimono con lo stesso ideogramma). Questa timidezza, questa paura degli altri, da vita ad una sorta di fobia che in Giappone è patologia quasi esclusivamente riscontrabile in giovani adulti maschi. Nel DSM-IV, ad esempio, relativamente alla categoria diagnostica della fobia sociale (disturbo d’ansia sociale), in riferimento alle “caratteristiche collegate a cultura, genere ed età” si legge testualmente: “in certe culture (per es. Giappone e Corea) gli individui con fobia sociale possono sviluppare paure eccessive e persistenti di offendere gli altri nelle situazioni sociali,queste paure sono motivate da ragioni culturali”.
Del padre quindi si è detto, dall’altra parte, il figlio sente la presenza di una madre iperprotettiva sempre pronta a soddisfare i propri bisogni come cultura del sol levante impone, una madre guida che controlla il mondo emotivo del figlio, pronta a farlo involontario bersaglio designato per le sue proiezioni di ansie e ideali irraggiungibili.
Stretti in questa duplice morsa genitoriale ed introdotti nella cultura dell’efficienza (non solo per quanto riguarda il punto di vista scolastico, ma a più amplio raggio intesa come norme di eccellenza da perseguire a costo di disumani sacrifici), i bambini o giovani adolescenti vengono educati fin dall’infanzia all’omologazione, a sottostare agli standard culturali, e come detto, spesso sono schiacciati da tale responsabilità e sperimentano quel senso di totale vergogna, di fallimento non solo per le proprie aspettative personali ma per quelle della famiglia ,del suo prestigio e della più grande armonia dell’intera popolazione.
Sono d’accordo con Marco Belpoliti e con il suo articolo comparso su un inserto del Manifesto del 2009, dove il giornalista sottolineava come tutta la cultura giapponese sia fondata su un profondo senso di vergogna mentre quella occidentale sul senso di colpa; con la conseguente macroscopica differenza che se la seconda si può espiare alla prima non c’è scampo se non viversela. Lo stesso concetto riguardante questo parallelismo lo presenta Gustavo Pietropolli Charmet quando sottolinea come sia terminato il modello educativo basato sul senso di colpa-castigo (per lo meno da noi in occidente poiché in oriente mai ce n’è stata traccia) che annoverava Edipo come unico emblematico re, vittima e carnefice della sua stessa colpa. Ora il ruolo da indiscusso protagonista lo trova Narciso, definito dall’autore “personaggio saturo di futuro” ma sempre a rischio di sbriciolarsi; e proprio come colui che morì per osservar se stesso riflesso, gli adolescenti odierni, tanto giapponesi quanto italiani, sono a rischio di Vergogna dal momento che aspirano al pavoneggiamento sociale accompagnato da successo molto di piu di Edipo, che, provando inconsciamente colpa, almeno non aveva interesse nel mostrarsi ai quattro, seppur virtuali, venti. E’ proprio dallo scarto tra sé-reale percepito e sé-ideale che nasce questo senso di vergogna che spinge gli hikikomori alla loro pacifica ritirata rivoluzionaria.

..E NEL “CARO e VECCHIO BEL PAESE”?

Se accettassimo per vero, anche solo in parte, l’assioma già risorgimentale poi pubblicitario, che assegna alla carta stampata il compito di creare, meta- comunicando, il pensiero di una data popolazione in una data epoca storica, si potrebbe affermare che “uno spettro si aggira per l’Italia- lo spettro dell’Hikikomori”!!
Le maggiori testate giornalistiche italiane, hanno in fatti, in maniera diversa ognuna con il proprio caratteristico taglio, chi più chi meno criticabile, affrontato questo tema; segno che un argomento sconosciuto quasi anche per gli addetti ai lavori fino a qualche anno fa, si è tramutato in argomento del popoletto, conosciuto e dibattuto, almeno fino alla stampa successiva, nella maggiori caffetterie o cucine nostrane.
A riprova di ciò, il vocabolario Zingarelli” della lingua italiana ha introdotto il termine nella sua edizione 2013
Come ogni novità presentata in qualsivoglia epoca storica, anche questa di hikikomori, lascia allibiti, e dinnanzi allo stupore, il nobile animo umano tenta di orientarsi spesso sentenziando teorie che fino a controprova scientifica dovremmo definire per lo meno ingenue.
Ecco così creati i due filoni di teorie che cercano di rispondere alla fantomatica domanda: hikikomori è un fenomeno strettamente Giapponese o esportabile nel resto del mondo?
Dati alla mano, e favorito dal fatto che gli adolescenti ora sono molto più simili che in passato in qualsiasi latitudine, Hikikomori ha già oltrepassato le frontiere giapponesi per annidarsi massivamente in Corea e Cina e facendo intravedere segni di se anche negli Stati Uniti, in Spagna, Italia , Francia e paesi del nord Europa.
Il recente interesse nel nostro paese, si è manifestata anche in seguito alla probabile scoperta di alcuni possibili casi nel nostro meridione, dove la struttura familiare di tipo matriarcale ripropone in parte dinamiche simbiotiche presenti in quella nipponica. Secondo gli studiosi giapponesi, la cultura italiana, come quella del Sol Levante, asseconda il mantenimento per un lungo periodo di tempo, del figlio in casa, fenomeno che potrebbe, come visto, favorirne la comparsa. Anche i dati proposti da Antonio Piotti, psicoterapeuta dell’associazione Minotauro di Milano sono allarmanti poiché ne segnalano la presenza di una dozzina di casi. In armonia con questa prima linea di teorie e ipotesi si è schierato anche il 46° Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria, che segnala che sarebbero tre milioni circa i nostri compatrioti colpiti da un disturbo psicologico che li costringe ad isolarsi dal mondo in stile hikikomori. (L’incidenza del disturbo colpirebbe dal 3 all’11% della popolazione, con prevalenza di maschi tra i 15 e i 40 anni, resi dipendenti dalla frequentazione compulsiva dei casinò online e siti pornografici; in generale comunque le condizioni occidentali del fenomeno non raggiungono la profondità di gravità, ne per quanto concerne la durata ne per la tipologia di isolamento che assume in oriente ).
Il maggior luminare in argomento, quel Saito Tamaki, che ne ha coniato il termine però, in un intervista rilasciata alla Dott.ssa Claudia Pierdominici (link), ci rassicura affermando che questa sintomatologia è caratteristica del Sol Levante in quanto il Giappone ha una sua unicità che conduce ad un particolare stile di vita che affonda le proprie radici tra l’ideale etico del Bushido, guerriero che trova la suo compiutezza nella libertà; l’idealismo, lo spirito di sacrificio caratterizzante il buddismo che sprona colui che si sente tradito ad abbandonarsi alla rinuncia , e il severo rigore del Confucianesimo che considera saggio l’uomo che rende silenti le proprie emozioni. Solo ed unicamente in questo terreno può crescere, come più volte ribadito in questo estratto di pagine, l’albero dell’hikikomori.
Dalla millenaria filosofia orientale, si può estrarre anche un altro insegnamento; si può iniziare a considerare che ogni cosa porta in se il suo opposto e che quindi ogni dinamica ha in se il proprio sintomo (oltre che la propria risoluzione), poiché come apostrofava Beguin nel lontano 1952: “si è folli solo in rapporto ad una data società”.
Si può iniziare a considerare quindi il comportamento di questi ragazzi come una risposta rivoluzionaria ai canoni della propria società, e se, nella nostra cultura, l’auto-esclusione tende a provocare comportamenti di abuso d’alcool, sostanze o esprimersi attraverso la negazione dei bisogni primari, come nel caso dei disturbi alimentari attraverso l’anoressia o la bulimia, i ragazzi giapponesi, figli di un contesto gruppale che li rende schiavi silenziosi, scelgono la via del silenzio, dei rapporti virtuali e dell’auto-clausura.

D.re Marco Camorali